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SCIOPERO

Il 14 luglio aderirò allo sciopero dei blogger contro il bavaglio alle
intercettazioni e all’informazione, promosso dalla legge criminale del
ministro Alfano, e contro la norma del diritto di rettifica entro 48
ore per tutti i siti, norma ribattezzata dalla Rete ammazza Internet
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Socrate dove sei?

La disumana ferocia di cui è
intriso il nuovo decreto sulla sicurezza ha già sconvolto molti.

Io vorrei soffermarmi su pochi
aspetti contraddittori e prettamente politici delle leggi in questione.

 

Già cinque secoli prima di
Cristo, Platone traduceva su carta questa frase di Socrate: la legittimità
delle leggi non riposa sul numero o sulla maggioranza ma sull’intrinseca
razionalità delle leggi stesse.

Invece di fermarci a
discutere se è possibile definire in assoluto ciò che è razionale e ciò che non
lo è, direi di prendere per buono il fatto che le scelte razionali in politica
devono necessariamente sottendere a degli scopi, meglio se espliciti.

Le leggi del decreto
sicurezza sono irrazionali e illegittime perché non se ne intravedono gli scopi
reali.

Se prendiamo lo scopo che è
stato propagandato, cioè quello di garantire la sicurezza ai cittadini,
troviamo di fronte il primo ostacolo del percorso razionale: quali cittadini?
Non è solo che questi provvedimenti, con il problema particolare della loro
gravità, siano stati decisi e imposti da una rumorosa minoranza di un preciso
territorio. E’ anche che la definizione di cittadino, nel 2009, non esaurisce
il concetto (o per alcuni sì, quelli che lo ritengono universale per ogni
individuo, e nel tal caso il problema dell’assenza di legittimità diverrebbe
parossistico).

Probabilmente chi ha propagandato
queste leggi ha inteso per cittadini gli individui con il passaporto italiano,
una circostanza che promette di non eliminare la contraddizione: difatti siamo
anche, e per certi aspetti soprattutto, cittadini europei e questo decreto
vìola proprio una lunga sequela di disposizioni comunitarie, rendendo
intrinsecamente irrazionale il suo proposito-pretesto.

Quale sicurezza, poi? Il
reato di clandestinità crea da un giorno all’altro, senza alcuna distinzione di
genere, di età, di comportamenti centinaia di migliaia di delinquenti, che come
tali saranno trattati e che tali si sentiranno. E delinquenti diverranno anche
quelli che li aiuteranno e quelli (ma lo erano già prima), per la maggior parte
tra i fautori del decreto, che li sfruttano da anni come schiavi nelle loro
aziende. Da un giorno all’altro l’Italia pullulerà di neocriminali, cosa che
pare contrasti radicalmente con lo scopo di sicurezza che si voleva
raggiungere.

Non mi soffermerò nuovamente
sulle ronde, che sembrano qualificarsi intrinsecamente irrazionali già dal
nome.

Dunque, se gli scopi
annunciati sono così contraddittori e confutabili devono essercene degli altri
occulti o quantomeno impliciti. Generalmente, nel politichese di oggi, una
legge come questa viene definita “spot”, cioè un pretesto pubblicitario per
mostrarsi attivi e vincenti di fronte ai propri elettori o, meglio, di fronte
al proprio pubblico.

Fosse solo una pubblicità,
con tutto il male che provocherà inevitabilmente, sarebbe raccapricciante. Il
problema è che si tratta certamente di uno spot, ma più precisamente di uno
spot che pubblicizza un prodotto politico dichiaratamente razzista circondato
da un diffuso consenso. E il razzismo, secondo la conoscenza umana, è
l’irrazionale per antonomasia.

Mi fermo qui, con la certezza
che all’opposizione basterebbe parlare con la forza della ragione, invece di
accapigliarsi per decifrare quali posizioni, di volta in volta, si prendano in
Vaticano.

 

 

E a proposito di tutto
questo: una catena di e-mail mi ha informato che è passata anche una legge che
prevede la detenzione in carcere da 1 a 5 anni per chi istiga via blog o social
network a disobbedire alla legge.

 

Ne approfitto subito.

 

Ai medici: non denunciate i
clandestini che vengono da voi per curarsi

Ai maestri, ai professori e
tutto il corpo scolastico: non denunciate gli alunni clandestini che studiano
da voi

Ai comuni cittadini e a me
stesso: proteggiamo e accogliamo ogni immigrato clandestino che incrocia la
nostra strada, senza alcuna distinzione.

 

E’ l’ora di prendere parte.

 

david

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Ciao Vincenzo

Noi tifosi della Roma abbiamo vissuto sempre con una consapevolezza
temprata dalla storia: non siamo dei vincenti. Belli, gagliardi e
innamorati sì, ma non vincenti. E come noi tifosi è anche la squadra
che sosteniamo. Spesso esprime il miglior gioco del campionato, compie
mirabili imprese sull’onda dell’entusiasmo, esibisce straordinari
profeti in patria e campioni stranieri affermati o in via di
consacrazione. Ma non vince mai. Qualche volta vince trofei minori,
altre volte, tre in ottant’anni di storia, ha trionfato dopo estenuanti
cavalcate solitarie. I trionfi della Roma si compiono senza respiro, in
apnea per mesi interi, come il nuotatore che rimane sott’acqua il più
possibile, dopo essersi tuffato, per riemergere solo quando ha tutti
gli avversari a debita distanza, quando le bracciate possenti dei
nuotatori più famosi, potenti e ricchi non possono più colmare lo
svantaggio.
E nessuno di questi trionfi è riuscito a toglierci di dosso la triste
idea della nostra incompiutezza, di quella triste ineffabilità del
destino che ci rende raramente secondi e qualche volta terzi, ma molto
più spesso quarti, quinti o sesti. La crisi dell’ottimismo romanista è
un tratto acquisito della nostra coscienza e si perpetra non solo
nell’analisi dei lunghi periodi, come i cicli societari o le stagioni
calcistiche, ma più ormai nelle partite stesse e finanche nelle singole
azioni di gioco. E’ una regola a Roma che le partite o le si vince con
grande vantaggio o comunque meritoriamente e nei tempi regolamentari o
non le si vince. Quasi mai la nostra squadra ha strappato vittorie nei
minuti di recupero e ancor più raramente è accaduto che riuscisse a
stravolgere la trama di un copione già scritto dall’inerzia naturale
delle cose: la consueta sconfitta a Torino, l’umiliante debacle con le
milanesi, il borioso pareggio con la Lazio. Che sia in bene o in male,
la sorpresa non fa parte delle emozioni romaniste.

Eppure.

Eppure c’era uno, l’unico che io ricordi, che ha avuto la follia e
l’ardore, anche se per poco tempo, di affrancarci da questo pessimismo
latente, di ridarci la sorpresa, di svelarci la meraviglia: Vincenzo
Montella.
Nella memoria recente di ognuno di noi rivive il sussulto di quella
rete rigonfia sotto una curva del Delle Alpi, quando il dissacrante
mimo dell’aeroplanino in faccia ai semprevincenti destò fra i tifosi
della Roma la sconvolgente e ignota sensazione di aver stracciato un
canovaccio già scritto e marchiato parola per parola nei loro cuori. Il
pessimismo romanista aveva previsto una triste fine per quella stagione
entusiasmante in cui si era avuta, finalmente, la squadra più forte del
campionato. Il 6 Maggio del 2001 i giocatori della Roma scesero in
campo contro la Juventus con sei punti di vantaggio e poche giornate
dalla fine. Dopo una serie di pareggi e sconfitte il copione del tifoso
romanista quella sera recitava “fine dell’illusione”. Ottomila
masochisti partirono per il Nord con l’ineludibile coscienza della
probabile fine di un sogno infranto ancora prima di cominciare a
correre per farlo realtà, ma che ancora resisteva in forma di fede
irrazionale nella forza morale e di più, fisica!, che dà la comunità
della passione. Passione, che vuol dire sofferenza.
Nei primi dieci minuti di gioco la Juventus segnò due goal: Del Piero e
Zidane. Stesso risultato alla fine del primo tempo. Intervallo: nella
partita e nel copione. Le battute di quella tragedia si coloravano man
mano come nel karaoke le strofe di una canzone. E così avanti, con il
capitano romano Totti sacrificato e triste a osservare la fine dalla
panchina.
Poi un goal: Nakata, il giapponese. La tragedia al suo acme, la
beffarda speranza che riempie i cuori romanisti prima dell’ineluttabile
destino cui si erano inconsciamente votati. Nei minuti di recupero,
mentre la fiamma della salvezza si spegneva da copione, ancora il
giapponese prese palla e scagliò un formidabile tiro dalla distanza
respinto dal goffo portiere Van der Sar. Un rimbalzo, uno scatto felino
in mezzo all’area e una zampata vincente di Montella gonfiò la rete. I
veri tifosi romanisti aspettarono che il guardialinee alzasse la
bandierina per segnalare un fuorigioco, nell’attesa di sorridere
beffardamente della loro infausta sorte. Ma nulla accadde. Fra gli
impietriti semprevincenti con la casacca bianconera sfrecciò la recita
infantile dell’aeroplanino in volo, inconsapevole nelle nuvole; fra i
tifosi romanisti divampò non la gioia ma il fuoco vivo della vittoria
sul reale e tutte quante le sue rappresentazioni.

GOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO

OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO (a Roma, per questo genere di cose, la L non si usa).
Oggi che Montella ha deciso di smettere di giocare, il destino
capovolto di quella serata torinese, e di quelle romane del goal al
Milan e dei quattro nel derby, torna a incombere invincibile. A
noialtri rimane la memoria.

david

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Il Nuovo Autoritarismo

Nascosto sotto un velo di seta, multiforme e imperscrutabile, un rigido
autoritarismo serpeggia nelle scuole e nei luoghi di lavoro in Italia.
Il mio amico Marco, non ancora ventenne, è stato assunto in un’agenzia
interinale per fare il postino di raccomandate: sei ore al giorno di
fatica per ottocento euro mensili. Durante la prima settimana ha sempre
terminato di lavorare almeno un’ora oltre l’orario stabilito, ma quando
ha chiesto che gli fossero pagati gli straordinari il suo datore di
lavoro ha risposto che non è prassi e che avrebbe dovuto adeguarsi alla
realtà del paese così come fanno i suoi colleghi.
Marco ha scoperto il mondo del precario al suo primo contatto con il
mondo del lavoro: l’espressione del suo volto mi dimostra che non si è
ancora arreso alla nuova realtà e che sa ancora distinguere con le
esatte coordinate, ed è una rarità, il vero dal falso, ciò che è giusto
da ciò che è ingiusto. Molti dei suoi colleghi non riescono più a
farlo, rassegnati a una logica del lavoro in cui l’assunzione del
valore positivo della competizione soverchia ormai quello della
solidarietà e addirittura quello della legalità.
Per quale motivo, ci si chiede, la protesta dei lavoratori precari non
sfocia in un conflitto sociale aspro e unitario e rimane invece
confinata a singole e sporadiche lotte?
La stessa condizione strutturale della precarietà costringe il
lavoratore ad occuparsi preminentemente della sua situazione
contingente per garantirsi la sopravvivenza giorno dopo giorno; inoltre
il lavoratore precario si muove di luogo in luogo, di posto di lavoro
in posto di lavoro e non ha possibilità di creare rapporti duraturi e
consolidati con i suoi compagni. Una condizione che priva i precari
della possibilità di pensare a una dimensione escatologica e ad
un’utopia di futuro.
Ma io credo che sia anche una ragione prettamente politica a
procrastinare la prospettiva di un conflitto: è la mancanza nella
nostra generazione di una preparazione di pratica e strategia della
politica stessa. Noi ventenni di oggi siamo stati abbandonati da ogni
organizzazione politica autonoma, dai partiti ai sindacati e finanche
dall’associazionismo cattolico. La nostra ignoranza in fatto di
politica è crassa e le nostre posizioni sono ambigue e frammentarie:
non abbiamo mai conosciuto una linea comune e di massa alla quale
rifarci o, meglio, alla quale ribellarci e opporci. I grandi movimenti
politici degli anni ’60 e ’70 in Italia sono nati e si sono sviluppati
in aperto contrasto e in esplicita ribellione ai metodi politici dei
partiti di massa. Oggi, di partiti radicati nella società che dettino
una linea chiara e intimamente ortodossa non ne esistono più e così non
esiste nemmeno l’idea di contrapporsi a questi con un nuovo sistema. In
più la situazione planetaria di una società in cui gli sfruttati e gli
sfruttatori sembrano stare dalla stessa parte e dipendere dall’anonimo
e incontrollabile flusso della finanza ha finito per confonderci la
mente e rendere difficile la distinzione fra i nemici e i compagni.
Nel momento presente, infatti, le relazioni umane nel mondo del lavoro
sono molto rare e avvengono, per via diretta, solamente con chi occupa
il gradino gerarchico superiore, spesso qualcuno più disperato e
oppresso dei suoi stessi sottoposti, costretto a fare la parte dello
sfruttatore per garantirsi il posto.
Quella che percepiamo è una gerarchia meno evidente ma più soverchiante
proprio perché immobile, poco visibile, di cui non riconosciamo le
strategie, di cui non conosciamo le pratiche. Una gerarchia mimetica,
che finge talvolta di non essere cosciente di quello che fa o che finge
di farlo per inerzia, ma che in realtà perpetua la sua sopravvivenza
attraverso la pratica stessa del potere così inteso: invisibile,
imperscrutabile. Eppure, spesso, questa gerarchia tradisce dei
comportamenti tanto patetici ed isterici che, se ci apparissero in
maniera più chiara, rideremmo di noi per non aver scoperto ancora il
modo di distruggerne l’incidenza.
Il preside del liceo Tasso mi accusò di avergli sputato in faccia
dentro un autobus e montò un processo per incriminarmi e impedirmi
l’accesso agli esami di maturità. Fui sconvolto, nella fattispecie,
della perseveranza e della pervicacia con cui portava avanti la sua
tesi che io, grazie a prove documentarie inconfutabili, provvedevo a
smontare. Così come quando, l’anno prima, aveva agitato l’arma del sei
in condotta per punire gli organizzatori di un’occupazione scolastica,
faticavo a capire cosa lo spingesse a un esercizio del potere tanto
spregiudicato e repressivo. Solo un attimo, tra i suoi occhi gelidi e
le sue parole sibilline ho pensato di scorgere una paura: un terrore,
quello di perdere il controllo sulla massa degli studenti. Ma per
l’appunto, fu un attimo.
Al liceo Newton di Roma il preside Rusconi ha punito con qualche sei in
condotta e lavori di utilità pubblica dentro la scuola dei ragazzi che
si erano iscritti su Facebook ad un gruppo denominato “Odio il Newton”.
Ha punito con severità la libertà di espressione e di dissenso e
nessuno ha protestato: non i docenti, non i genitori, che anzi si sono
complimentati con lui. E cosa ha trattenuto gli studenti? Di certo non
la mancanza di coraggio, semmai la mancanza di consapevolezza che è
possibile tirar fuori quel coraggio, perché quegli studenti, come tutti
gli altri, sono privi di organizzazione, di coesione e di strategia di
lotta.
E così modesti dirigenti di provincia si trasformano in vecchi,
inviolabili lupi di mare al cospetto di chi è ignorante di pratica
politica.
Per noi ragazzi di estrazione borghese è stato coniato l’epiteto di
“futura classe dirigente”. Può darsi che, per limiti di età di quella
esistente, un giorno lo saremo, ma sicuramente non ne avremo coscienza.
A differenza di chi dirige oggi, non riconosceremo il nostro potere e
anzi ce ne sentiremo espropriati e rischieremo di abdicare alle nostre
presunte responsabilità in favore di qualcuno, anche di uno soltanto,
più cosciente e scaltro di noi.
Ad oggi le scelte elettorali degli studenti e dei lavoratori precari di
sinistra sembrano improntati a un diffuso antiberlusconismo e ad una
vaga idea di politica economica. Ma dobbiamo riconoscere che dietro
all’isteria degli improperi e delle maledizioni che ogni giorno
rivolgiamo a Berlusconi si cela la consapevolezza che anche una sua
detronizzazione non migliorerebbe di molto la situazione.
Non c’è passione in queste scelte, né speranza; non c’è nemmeno
ribellione, perché non esiste nessuna crocetta proibita dentro l’urna
elettorale, nessun rischio di affrancarsi da una identità politica
comune. E questo non perché i partiti siano tutti uguali, ma perché
pare che non esista nessuna identità condivisa alla quale votarsi o
dalla quale discostarsi se non quella confusa, precaria e dirigista di
chi esercita il potere. Una linea politica tanto invisibile quanto
vincente, tanto confusa quanto dominante.
La stessa che ha avvelenato il mondo del lavoro e che ha oscurato le prospettive di un nostro futuro.

david gallerano

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Il Referendum del 21 Giugno

Se mai l’idea vi avesse sfiorato il cervello, il 21 e il 22 giugno
rimanete a casa e non votate il Referendum Elettorale. I motivi che
dovrebbero impedirvi di commettere una tale scelleratezza sono tanti e
proverò ad illustrarveli uno per uno in questa breve nota.

Il Referendum Elettorale è stato pensato e promosso da alcuni
personaggi vicini al PD, fra cui l’ex ministro prodiano Parisi e l’ex
DC Mario Segni (quello del Patto Segni) per sancire, per una volta con
il consenso dei cittadini, l’avvenuto passaggio alla forma politica del
bipartitismo.
Stabilisce che il partito che abbia ottenuto la percentuale più alta
nelle elezioni politiche goda del 55% dei seggi in parlamento. Non più
la coalizione elettorale, come avviene per la legge vigente, la
malfamata “porcata” (secondo la definizione del suo creatore
Calderoli), ma il solo partito.
Sebbene sia sacrosanto il secondo quesito, che chiede l’abrogazione del
diritto di un singolo di candidarsi in più di un collegio elettorale,
escamotage usato in queste elezioni da Berlusconi, Di Pietro e Bossi, è
sul primo che vale la pena di fare una lucida riflessione.
Il partito che oggi gioverebbe di quel premio di maggioranza è il Pdl,
il partito di un uomo solo, del padrone del sistema mediatico italiano,
di un uomo moralmente indegno e che ha in spregio il ruolo del
parlamento e delle istituzioni in genere. Con il 55% dei seggi in suo
possesso avrebbe la possibilità di allearsi con i deputati della Lega e
pervenire a quei fatidici due terzi del parlamento che gli
permetterebbero di mettere le mani sulla costituzione.
Passasse il referendum, Berlusconi potrebbe immediatamente sciogliere
le camere, richiedere le elezioni anticipate e porre in atto sin da
subito il suo progetto assolutista.
Vi chiederete come sia possibile che alcuni adepti dell principale
partito d’opposizione avallino e addirittura abbiano creato un
referendum di questo tipo, capace di sgretolare ogni simulacro di
attività parlamentare e ogni afflato di democrazia.
Non fatevi ingannare dalla prosopopea dei referendari, non fidatevi
della morale politico-scientifica con la quale sostengono le proprie
ragioni, convinti nel profondo di rendere un servizio alla propria
parte politica prima ancora che alla democrazia, ansiosi come sono di
sancire una volta per tutte quel bipartitismo, che le ultime elezioni
europee hanno dimostrato indigesto all’elettorato italiano, ma che
credono possa legittimarli e rafforzarli nel futuro.
Prima ancora di discutere sull’effettiva necessità di un bipartitismo,
quando invece l’evidenza afferma che solo l’alleanza fra tutte le forze
d’opposizione farebbe vacillare il dominio berlusconiano, o sulla sua
effettiva bontà politica, a prescindere dalla realtà vigente, diffidate
della troppa consapevolezza dei suoi fautori.
Credendo di normalizzare e placare l’ondata fascista, la classe
liberale in declino dei primi anni ’20 scese a patti col fascismo,
finendone dapprima scavalcata e poi divorata. La stessa sorte capitò ai
liberali austriaci di fine ‘800. Eppure i liberali erano i cultori del
raziocinio, dell’equilibrio, della fredda analisi politica. Ignorarono,
come ignorano i referendari d’oggi che, citando il blogger Mattia
Toaldo, nel loro paese esistevano “tante, troppe anomalie rispetto ai
libri di scienza politica”.
Anche la classe dirigente del Pd sembra compatta sull’adesione al
referendum. Ma badate, è la stessa classe dirigente che non ha proposto
la legge sul conflitto d’interessi in sette anni di governo e che ha
barattato quella sul monopolio televisivo con una manovra economica nel
primo governo Prodi: i presupposti fondamentali per l’ascesa di
Berlusconi e il declino della ragione democratica.
E del resto la condotta ondivaga del Partito Democratico sul tema
dovrebbe farvi riflettere: prima convinti assertori, poi titubanti,
infine nuovamente sostenitori in nome di un pericolosissimo voto di
coerenza. Motivano la scelta di votare sì, i democratici, con l’idea
che questo referendum serva solo a strigliare il parlamento sulla
necessità di stendere una nuova legge elettorale. Perché, invece di
contare su un parlamento a maggioranza genuflesso alle decisioni del
capo, non cominciano una battaglia senza quartiere per una legge
elettorale equa e rappresentativa dei cittadini, che restituisca il
presupposto democratico delle preferenze o, ancora meglio, quello più
sicuro e lineare delle primarie obbligatorie?
Ed è paradossale, infine, che il probabile fallimento di questo
referendum sia dipeso da quel mirabile exploit leghista alle europee
che ha imposto a Berlusconi il diktat di Bossi, il quale, lucidamente,
sa che la sua capacità di incidenza sulle scelte del governo dipende
dal fallimento del progetto bipartitico.
Ma non rallegratevi: prima o poi arriverà il giorno in cui le due forze si accorderanno per spartirsi il potere.
Per ora è solo rimandato.

david

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La Svolta Autoritaria

La svolta autoritaria

 

Mi sembra di essere in ritardo, di aver perso tempo in cose
futili prima di decidermi a scrivere dei miei timori, della fine della
democrazia nel nostro paese che vedo avvicinarsi poco a poco. Ora sono i fatti
a parlare per me: ogni giorno si prolunga l’agonia di questo infelice Stato
democratico, stretto nella morsa dal potere immenso di un solo uomo e indifeso
da tutti gli altri.

Osservatori poco avveduti vedono nell’ormai palese attacco
di Berlusconi alle istituzioni democratiche una riedizione del colpo di Stato
fascista del 1922. Peccano della cosiddetta “boria dei dotti”: identificando il
momento presente con quello dell’anno dell’avvento del fascismo e sovrapponendo
le due figure di Berlusconi e Mussolini commettono l’errore di paragonare due
momenti storici del tutto differenti. Nulla della situazione passata è oggi
riscontrabile. Per quanto riguarda i due personaggi, sebbene uniti in una
megalomania comune peraltro a moltissimi uomini di potere, poco o nulla si può
trovare dell’uno nell’altro. E questo perché Berlusconi è evidentemente e
ovviamente il frutto della degenerazione della politica della cosiddetta prima
Repubblica. Sbaglia chi dice che nel momento della sua prima candidatura egli fosse
un uomo venuto dal nulla, un neofita della politica. Berlusconi è di certo
sceso in campo, come si sa, per salvare le sue aziende sull’orlo del
fallimento, approfittando del vuoto politico generato dallo scandalo di
Tangentopoli. Se ha potuto farlo, se ha trovato sponde e appoggi nella sua
scalata al potere politico è perché seminava da tempo un campo di cui, nel
momento giusto, ha colto i frutti. Berlusconi è la conseguenza ultima e
certamente estrema di quella degenerazione causata dai rapporti foschi e oscuri
che in ogni democrazia intercorrono tra politica e affari, tra potere e
finanza. L’imprenditore Berlusconi ebbe bisogno della politica per allargare il
giro dei suoi affari, avvalendosi dell’amicizia con il segretario socialista
Bettino Craxi, con il quale concordò numerose leggi “ad personam” che gli
consentirono di trasmettere in chiaro i tre canali televisivi di sua proprietà.
Berlusconi era inoltre iscritto alla P2, la loggia massonica segreta di Licio
Gelli, di cui facevano parte numerossimi potenti del tempo (i vertici del Corriere
della Sera, vari ministri e uomini di spettacolo, militari ecc) e che si
proponeva l’obiettivo ultimo, esplicato nel Piano di Rinascita Nazionale
redatto dal Maestro Venerabile Gelli, di rafforzare i poteri del capo del
governo, di estromettere le ali estreme dell’arco costituzionale dalla scena
politica, di utilizzare la liberalizzazione delle emittenti televisive
(dissolvendo la Rai) per influenzare l’opinione pubblica. Un passo del Piano di
Gelli recitava proprio così: usare gli strumenti finanziari stessi per
l’immediata nascita di due movimenti, l’uno, sulla sinistra (a cavallo fra
PSI-PSDI-PRI-Liberali di sinistra e DC di sinistra), e l’altro sulla destra (a
cavallo fra DC conservatori, liberali, e democratici della Destra Nazionale).

Il fatto che tutti questi progetti si siano tramutati poco a
poco in realtà è da ascrivere alle manovre del piduista Berlusconi oltre che a
quelle di molti altri piduisti sparsi fra maggioranza e opposizione.

E’ ora chiaro che Berlusconi, sebbene non fosse come Mussolini
nel ’22 un uomo politico vero e proprio, con una discreta base di consenso e un
passato di violenza organizzata alle spalle, di certo non era un novizio della
politica nel momento di “scendere in campo”

Detto ciò, sono del parere che l’appetito gli sia venuto
mangiando. Non ripercorrerò tutte le tappe della sua carriera di leader del
centrodestra, di questi quindici anni in cui è stato alternativamente capo del
governo e capo dell’opposizione. E’sufficiente soffermarsi sulla più stringente
attualità per provare a capire come e perché Silvio Berlusconi stia per
impadronirsi definitivamente del potere assoluto su questo paese.

Il Cavaliere non fa mistero di puntare alla presidenza della
Repubblica. Secondo alcuni, per la prima volta nella sua storia, ha sbagliato i
calcoli: se Napolitano rimarrà in vita sino al 2013, quando scadrà il suo
mandato settennale, Berlusconi si troverà ad affrontare una situazione politica
sulla quale non possiamo (noi e lui) far altro che ipotesi e supposizioni.
Perché nello stesso anno, a meno che l’attuale legislatura non cada prima del
tempo per qualsiasi motivo, si svolgeranno le nuove elezioni politiche. Nulla
lascia presupporre che il Pdl manterrà sino ad allora il consenso di cui gode
oggi, complice la tremenda crisi economica che sta colpendo tutti i mercati del
mondo. Se pure riuscisse a guadagnarsi una nuova ma non amplissima maggioranza,
i partiti di opposizione tenterebbero un’estrema ed estenuante opposizione
contro l’ipotesi dell’elezione a presidente della Repubblica di Berlusconi. Per
uscire dall’impasse, qualche personaggio politico di centro o addirittura di
destra potrebbe proporsi come alternativa al Cavaliere, nel tentativo di creare
un’empatia con le forze di opposizione e qualche appoggio nella maggioranza di
centrodestra, pronta a sbarazzarsi dell’ingombrante e ormai vecchio padre
padrone. E’ in questo senso che leggo la nuova carriera di difensore delle
Istituzioni democratiche intrapresa da Gianfranco Fini, il quale ha ormai
rinnegato le sue origini fasciste, è costantemente in prima linea contro
l’antisemitismo e in perfetta armonia con il capo dello Stato. Se non riuscisse
lui proverebbe di certo il centrista Casini, forte di un solido passato
istituzionale e di un ampio credito presso il centrosinistra.

Dunque il rischio che Berlusconi veda svanire tutto d’un
tratto il suo progetto più ambizioso è reale e concreto. E quindi da
scongiurare a tutti i costi.

L’unica via percorribile dal presidente del Consiglio d’ora
in avanti sarà quella di fare in modo di ottenere i poteri del capo dello Stato
senza diventare ufficialmente capo dello Stato.

La soluzione? Mirare alla forma istituzionale del
presidenzialismo. Non è una boutade, Berlusconi e i suoi accoliti ne hanno già
ampiamente fatto menzione pubblica. Uno dei vari baciapile del Presidente del
consiglio ha detto che c’è da scegliere tra un premierato forte e l’elezione
diretta del Capo dello Stato. Entrambe le soluzioni premierebbero Berlusconi,
il quale si sente, forse a ragione, legittimato a proporre una svolta simile
poiché ben cosciente del fatto che chi lo vota non sa affatto che vota in
realtà per la composizione di un parlamento, di una maggioranza e di
un’opposizione. Coloro che votano per Berlusconi alle elezioni politiche (e forse
anche quelli che non lo votano) credono fermamente di votare per l’elezione di
un capo (che si presuppone debba essere decisionista e onnipotente) e non
capiscono l’utilità delle camere né il valore della Costituzione. E questo
perché nessuno si premura di farglielo capire e di spiegare come il governo di
uno e uno soltanto non abbia nulla a che fare con le Istituzioni democratiche,
le quali sono alla base di ogni libertà individuale e di espressione. Questo
perché anche l’unico partito d’opposizione rimasto sulla scena si adegua alla
situazione e cerca di candidare  in ogni
elezione l’uomo forte, l’antiBerlusconi, seguendo una scia di inesorabili e
prevedibili fallimenti. Perché quasi più nessuno mette in cima all’agenda
politica le questioni istituzionali e la difesa delle libertà democratiche,
come quella di poter scegliere espressamente quali candidati eleggere nel
parlamento italiano e in quello europeo. La questione delle preferenze, spesso
sottovalutata, è l’esempio lampante di come Berlusconi tenti di svalutare la sovranità
delle camere, che sono per lui un inutile fardello. Il parlamento viene così
infarcito di leccapiedi e raccomandati, di figuranti senza alcuna indipendenza
di giudizio, tali e quali a quelli che compongono oggi il gabinetto di governo
del presidente del Consiglio. E in questo scenario deprimente l’unica figura ad
emergere è quella di Berlusconi.

Portata a termine la svalutazione del parlamento, per il
quale Berlusconi ha recentemente proposto il voto esclusivo ai cinque
capigruppo, restano da colpire i due restanti poteri dello Stato.

La magistratura è nel mirino del premier, anche ma non solo
a causa delle sue vicende personali, ormai da moltissimi anni. I magistrati
sono folli, comunisti, incapaci. Per loro il presidente del consiglio propone,
attingendo dal Piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli, la separazione
delle carriere di giudice e pubblico ministero, atta a trasformare quest’ultimo
in una sorta di “avvocato della polizia”, al servizio di
una “accusa preconfezionata in uffici di polizia operanti alle dipendenze
dell’esecutivo”, come sostiene il magistrato Nello Rossi (e molti altri con
lui).

 Infine, il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano è oggi l’ultimo ostacolo istituzionale alla svolta autoritaria di
Berlusconi. Si crede erroneamente che il Capo dello Stato occupi di fatto un
ruolo meramente cerimoniale, che serva solamente a dare gli auguri di buon anno
ai cittadini.

Questo è vero solo in tempo di “pace”
istituzionale. Sappiamo come la presenza del Re costituisse un elemento di
sotterranea debolezza per il regime Fascista, tanto è vero che con le prime
sonore sconfitte in guerra Mussolini fu presto esautorato dal potere di
governo. Fino ad allora, è vero, il sovrano aveva fatto registrare un
rumorosissimo e accondiscendente silenzio. Ma quando arrivò il momento, non
impiegò molto tempo a riprendere in mano la situazione.

Il presidente della Repubblica può fare
questo ma anche molto altro. Egli è il custode ultimo della Costituzione,
l’estremo baluardo contro ogni tentativo di svolta autoritaria. Ha il potere di
non firmare leggi e decreti quando non li ritiene conformi alle norme
costituzionali.

Berlusconi sta tentando di scontrarsi
con il vecchio presidente Napolitano, a scopo di delegittimarlo presso
l’opinione pubblica. Nel pieno del clima di suggestione collettiva provocato
dal caso della giovane donna in coma da vent’anni, il caso di Eluana Englaro,
Berlusconi ha pensato bene di proporre un decreto legge che fosse al contempo
gradito alla maggioranza dei cittadini e inaccettabile per il presidente della
Repubblica. Prima di proporlo ha macchinato una gigantesca campagna di stampa
per far credere alla gente (cioè a molti dei suoi elettori) che nessun’altra
decisione che non fosse quella del decreto legge sarebbe stata legittima. Come
da progetto, Napolitano non ha potuto fare altro che sanzionare l’illegittimità
costituzionale del decreto proposto dal governo e lo ha rispedito al mittente,
suscitando le ire pretestuose del presidente del consiglio. Ciò che ha fatto
naufragare il piano di Berlusconi è stato l’inaspettato rifiuto ideologico del
decreto da parte della pubblica opinione, per nulla pervinta dalle parole del
premier e dalla campagna stampa capeggiata dalla connivente Chiesa Cattolica.
Un timido segnale di speranza, si potrebbe dire.

Scongiurato nell’immediato, l’assedio
di Berlusconi alla legittimità della prima carica dello Stato sembra rimandato
solamente alla prossima occasione utile.

Dal declino di queste istituzioni
dipende quindi la riuscita della strategia politica del presidente del
Consiglio. Come detto, la strada che sta percorrendo è quella del
presidenzialismo. Questa forma istituzionale è presente anche in molte altre
democrazie, come quella francese, tedesca e americana. Non è affatto detto che
si tratti di per sé di una soluzione autoritaria. In Italia però ci sarebbero
rimarchevoli differenze rispetto agli altri paesi. Innanzitutto a volere il
presidenzialismo è colui che mira a esserne primo beneficiario. C’è poi da dire
che in Italia non esiste una legge sul conflitto d’interesse e dunque il
presidente eletto, qualora fosse Berlusconi, avrebbe in mano, oltre che il
potere esecutivo, quello legislativo (ammesso che gli piaccia mantenere in vita
un simulacro di assemblea parlamentare), quello dell’informazione, dacché
sarebbe proprietario di tre delle quattro emittenti televisive in chiaro e
proprietario eminente della tv di Stato (che, tuttavia, mira a far sparire,
come dimostra il caso Villari e come stabilisce il famoso Piano di Rinascita
Democratica di Gelli), il controllo delle forze di polizia e dell’esercito.
Molti di questi poteri sono già nelle sue mani, altri li conquisterebbe con il
cambio di forma istituzionale. Il più importante, non ancora menzionato,
sarebbe quello di avere mani libere sulla Costituzione, che è il postulato,
l’assioma di ogni legge e di ogni altra istituzione.

Per ovviare all’eventuale fallimento di
una pacifica conquista del potere (semi)assoluto, Berlusconi si sta premurando
di garantirsi una via alternativa: la recentissima legalizzazione delle ronde è
il primo passo verso una strada coercitiva. Come si è visto, oltre a essere ora
consentite, le ronde notturne “per la sicurezza”, costituite da liberi
cittadini, sono organizzate direttamente da organi di partito. I partiti più
impegnati nell’impresa sono proprio quelli di centrodestra e in particolare la
Lega Nord di Bossi, che rimane il più affidabile alleato di Berlusconi e che
tale sarà per sempre, tanto i due soggetti sono interdipendenti.

L’istruzione impartita da Lega e Pdl ai
partecipanti delle ronde è chiaramente paramilitare. Le ronde rischiano così di
diventare milizie di partito. Quali differenze allora tra queste stesse e i
Fasci di Combattimento di Mussolini o, peggio, le Sa e le SS del regime
nazista?

Lo strumento militare può essere, per
Berlusconi, un futuro strumento per ricattare gli ultimi poteri di opposizione:
dai sindacati agli altri partiti, sino a imprenditori e giornalisti non
allineati.

Uno strumento, quello della forza, che
Berlusconi potrà alternare con quello della manovra politica, giocando fra le
due sponde come prima di lui fece Mussolini, uscendone con l’Italia fra le mani.

 

Non esiste obiezione che non possa
essere fatta a questo scenario desolante. Ma anche se non ci fossero le mie
supposizioni basterebbero, per tenersi all’erta, le dichiarazioni che rende
quotidianamente l’Onorevole Berlusconi, che non fa più alcun mistero, ormai,
delle sue aspirazioni totalitarie. Prenderne atto e organizzare una risposta è
l’unica strada che ci rimane. E’ finito il tempo delle ironie e delle attese.
Per scongiurare la svolta autoritaria è ormai necessaria la stessa ispirazione
che illuminò la coalizione partigiana vincitrice del fascismo. Al contempo,
però, occorre la lucidità e la consapevolezza della realtà presente. E allora
faccio mio il recente invito del magistrato Francesco Saverio Borrelli, un
invito radicato nella storia e vivo nel presente: resistere, resistere,
resistere.

david

 

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Il grimaldello della vergogna

Una sola cosa aveva chiesto Beppino Englaro per questi ultimi giorni di vita di sua figlia: il silenzio. Nessuno lo ha rispettato.
Prima della svolta bonapartista di Berlusconi, la discussione sulla sentenza della Cassazione si era infiammata fra laici e clericali, atei e fondamentalisti, repubblicani e papalini sempre su temi impropri.
Il caso di Eluana è un caso di coscienza personale prima ed un caso istituzionale poi. La prima questione che bisogna porsi per affrontarlo è quella del motivo per cui Beppino Englaro ha condotto la sua battaglia. Solo la sua ripugnante arroganza poteva far insinuare a Berlusconi che Englaro e sua moglie fossero spinti da qualcos’altro che non dall’amore estremo e disperato per la loro figlia Eluana. Non c’è nulla che possa far credere il contrario. Nulla.
C’è poi da riflettere sul concetto di vita, di cui parlano a sproposito in tanti. Cos’è la vita? Non ho intenzione di addentrarmi in un impervio discorso filosofico, ma bisogna considerare che non si dichiara morto solo chi è già tornato alla terra, in stato di decomposizione. Si dichiara morto anche chi, per esempio, è morto clinicamente, cioè è compromesso il sistema circolatorio, pur mantenendosi alcune funzioni vitali. Con ragione, com’è possibile decretare la morte di un individuo? Qual è la discriminante fondamentale? L’uso del cervello? La respirazione? Il nutrimento? Non si può stabilire la morte di nessuno con certezza assoluta. E allora? Se non ci basassimo su alcuni riferimenti convenzionali dovremmo finire per vietare anche la cremazione dei corpi. E’ chiaro dunque che la vita e la morte non sono e mai saranno un concetto assoluto e la legge può muoversi concretamente solo su concetti universalmente riconosciuti ma basati sul senso comune e sulla casistica stabilita dalla medicina. E’ proprio la scienza medica la chiave che ci aiuta a capire la questione in esame: diciamo che Eluana è viva perché è la medicina a stabilirlo, convenzionalmente. Questo è un fatto accettato da tutti. Inoltre è viva perché l’evoluzione della tecnologia medica di questi anni le ha fornito le strumentazioni necessarie per nutrirsi, curarsi (Eluana è infatti riempita quotidianamente di farmaci per qualsiasi evenienza), mantenere efficienti alcune funzioni vitali (anch’esse definite dalla scienza medica). Su quali altri basi, allora, possiamo affrontare il caso estremo di Eluana se non su quello della medicina?
Si dà il caso, però, che la medicina non sia una scienza esatta e che si basi sulla casistica e sulla probabilità. Questo lo si sa, e vale anche e soprattutto per quanto detto sopra. Nel caso di Eluana la medicina, basandosi sui suoi unici mezzi a disposizione, la casistica e la rilevazione empirica, stabilisce che non esiste possibilità che si risvegli. Ci dice altresì che la parte del cervello che le permetterebbe di avere contatti col mondo esterno, di comunicare con se stessa e con gli altri, cioè di distinguersi da un vegetale, non funziona e mai potrà riattivarsi. Ci dice, dunque, che tutto ciò che si compie sul corpo di Eluana non è utile alla sua sopravvivenza come essere umano, ma solo come corpo in possesso di alcune funzioni vitali e riflessi incondizionati: è un accanimento.
Come tale è percepito dalla sua famiglia, dalle sue amiche e da tutte le persone che l’hanno amata fino a diciassette anni fa. Gli unici che hanno sofferto negli stessi diciassette anni, gli unici che soffriranno anche in futuro e per sempre. Già questo basterebbe a spegnere il fuoco delle polemiche e a rispettare il silenzio richiesto da Beppino Englaro.
Invece c’è tutto il capitolo politico-giudiziario da affrontare, pur brevemente. Una sentenza della cassazione è una sentenza definitiva. Non sono un esperto di giustizia ma credo che una sentenza fatta di tre appelli e numerose testimonianze, nel rispetto del diritto costituzionale di decidere per sé sulla propria vita possa essere discussa e avversata ma non considerata carta straccia. La paura di qualcuno è che possa essere un precedente devastante. Partendo dal presupposto che nel nostro sistema giudiziario il precedente non ha valore giuridico, l’unico modo per evitare una cosa simile e che già da domani ci si metta al lavoro per una legge sul Testamento Biologico. Non sul fine-vita, come dicono in tanti. Stefano Rodotà spiega la sostanziale differenza tra le due leggi dicendo che la prima (che rispetterebbe il suddetto diritto costituzionale) è decisa dall’individuo e vale su lui stesso, la seconda è decisa da altri per tutti gli individui. Solo la prima, dunque, risolverebbe costituzionalmente e legittimamente il problema.
Poi c’è lo scontro istituzionale: non ho motivi per credere che Berlusconi smanii per salvare quel che rimane di Eluana Englaro. Quel che invece è certo è che Berlusconi sapeva che Napolitano non avrebbe mai e poi mai approvato un decreto legge atto a rovesciare una sentenza passata in giudicato. E anche se non lo avesse saputo, pochi giorni fa, privatamente, il presidente della Repubblica glielo aveva comunicato. E’ evidente che il presidente del consiglio ha utilizzato l’espediente che gli sembrava più popolare (non per l’opinione pubblica, schierata a maggioranza con Beppino Englaro ma per il parlamento: alla sua maggioranza ha chiesto una specie di voto di fiducia; con lui c’è anche l’Udc in quanto partito filoclericale e la parte cattolica del Pd) per lanciare il suo attacco agli altri poteri della Repubblica: il presidente in primis, la magistratura in secundis. Tutto ciò con il rumoroso assenso della Chiesa, priva di alcuna pietà umana, dottrinariamente discutibile e smaniosa di riprendere il controllo politico, mai del tutto abbandonato, sul nostro Paese.  Lo scontro istituzionale cercato sapientemente e prontamente trovato si preannuncia gravido di conseguenze. Ciò che più avvilisce, oggi, è che il grimaldello di Berlusconi sia stato il dolore composto e coraggiosamente esibito della famiglia Englaro. E il silenzio rimane un’utopia.

david

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Yes, we can

Potrebbe mai, in Italia, un immigrato di prima generazione diventare presidente del consiglio? No.
Si pensava lo stesso per gli Stati Uniti. C’è ancora chi lo pensa. Oggi è morta la nonna di Barack Obama, un giorno prima delle elezioni che potrebbero portare il nipote a diventare la guida politica dell’occidente. A soli quarantaquattro anni è morto anche il capo del suo staff, di infarto, sopraffatto dalla tensione.
I fotolog, facebook, i nick di messenger, i myspace: un solo volto, un solo slogan. Il presidente nero: Barack Obama dal Kenya.
 
E’ come sognare.
Daje.
 
david
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Cossiga’s way

Il senatore Nitto Palma, magistrato (dunque matto?) arruolato nelle file del Pdl ha riferito in parlamento sugli scontri di Piazza Navona tra Blocco Studentesco e alcuni ragazzi dei collettivi universitari. Secondo lui i ragazzi del Blocco stavano tentando pacificamente di deviare il percorso del proprio corteo verso il Ministero dell’Istruzione a Viale Trastevere; a quel punto sarebbero stati provocati e fermati con la forza dagli studenti di sinistra. L’onorevole Italo Bocchino annuncia: “Gli scontri scatenati dalla sinistra antagonista. Cosa si inventerà ora l’opposizione per far deragliare il governo?”.

Basterebbe la lucida follia del senatore a vita Cossiga per far luce sull’incresciosa vicenda dato sì che, solo pochi giorni prima dei fatti, aveva delineato con precisione la strategia governativa da adottare in questi casi: infiltrazioni, provocazioni, botte e cariche della polizia.

La vera colpa degli studenti della “sinistra antagonista”, a ben vedere, è quella di essere caduti in una trappola ottimamente orchestrata, di essere stati, come sempre, involontari e stolti attori di una messinscena creata per distruggerli.

Per una volta occorre che il movimento espunga, e in fretta, quella parte di esso che vive la lotta politica come una perenne partita di calcio balilla (si noti il termine) tra rossi e neri e che esalta l’etica dello scontro fisico, della contrapposizione estetica prima che ideologica. Pur trattandosi di una parte infinitesimale del movimento e pur essendo una frangia poco organizzata e autofinanziata è ugualmente una spina nel fianco nella rete dei milioni di studenti che si stanno mobilitando in tutta Italia.

E questo perché l’antagonismo del movimento non ha alcun bisogno di concentrarsi sulla minaccia “fascista” di Blocco Studentesco, di accettare provocazioni e accettare vendette: farlo significa legittimare qualche centinaia di burattini manovrati, finanziati e organizzati (ahinoi, bene) dalla centrale di violenza Casa Pound e, questa volta, evidentemente, da qualcuno ancora più in alto.

La fretta del governo Berlusconi di mettersi alle spalle il problema della protesta studentesca rende ancor più evidente la strategia utilizzata; ne siano prove i celerini che chiamano per nome gli aderenti al Blocco Studentesco e intervengono con mezz’ora di ritardo nel conflitto (loro di solito così veloci e beati nel tirar fuori i manganelli),  l’informativa resa in senato, le televisioni di regime che mandano in loop i filmati artefatti e costruiti per l’occasione dai neofascisti, conditi dalle loro urla posticce (“non provocate”, restate calmi”) con l’occhietto fisso alle telecamere.

E finiscono per farsi male veramente solo dei ragazzini preadoloscenti, pestati a calci e pugni da quelli di Blocco prima dell’entrata in scena delle scenografiche spranghe tricolori. A scatenare la loro rabbia il coro “siamo tutti antifascisti”, considerato come un’inammissibile provocazione. Per sentirsi provocati da un simile slogan o si ha la coda di paglia oppure si è fascisti.

Ora è necessario riorganizzarsi, incassando i colpi subdoli del governo e dei suoi luogotenenti stile Bocchino (che si impegna tanto nel dare lezioni di morale agli studenti quando è l’unico ad aver intascato soldi dalla farsa Telekom Serbia), trincerando il movimento dalle infiltrazioni amiche e nemiche, uniti e vigili per fare in modo che, serenamente, siano tutti travolti dall’Onda.

 

david

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